Calcio nelle coronarie: aumenta la mortalità per infarto fino al 20% a 10 anni. Anche nei giovani

10 Feb 2017

L’allarme viene dal CARDIA uno studio americano condotto su oltre 5.000 pazienti. La presenza di calcio nelle coronarie a qualunque età e di qualunque entità rappresenta un importante campanello d’allarme per coronaropatie e mortalità correlata nell’arco dei successivi 10 anni, anche se si hanno meno di 50 anni. Basta una TAC torace, fatta per qualunque indicazione, per rivelare la presenza di questi depositi mortali

Il calcio nelle arterie è un segnale di pericolo. A tutte le età. Una ricerca della Vanderbilt University appena pubblicata su JAMA Cardiology dimostra infatti che basta la presenza anche di piccole calcificazioni nelle coronarie (il cosiddetto CAC, coronary artery calcium) per far aumentare prepotentemente il rischio di coronaropatia nel corso dei dieci anni seguenti. E questo anche se si hanno meno di 50 anni.

E per le persone con gli score di calcificazione più elevati, il rischio di morire per un evento cardiovascolare in questo stesso arco di tempo aumenta del 20%.

Che la calcificazione delle coronarie rappresenti un fattore di rischio per coronaropatia e per malattie cardiovascolari non è una novità. Tuttavia fino ad oggi mancava la valutazione prognostica di questo indice di rischio per le fasce d’età più giovani, quelle dei trentenni e del quarantenni, oltre che per le donne americane di colore.

“Abbiamo sempre pensato – afferma il primo autore dello studio Jeffrey Carr, direttore della radiologia alla Vanderbilt – che fosse necessario sviluppare una placca di una certa entità, prima di essere considerati a rischio di un evento cardiovascolare. Ma in questo studio abbiamo dimostrato che anche nei più giovani, qualunque quantità di calcio nelle arterie è in grado di aumentare in maniera impressionante il rischio di cardiopatia ischemica clinicamente rilevante. Qualsiasi livello misurabile di CAC all’inizio della mezza età, e parliamo di score inferiori a 100 o addirittura inferiori a 20, comporta un aumento di rischio del 10% di infarto, fatale o non, nell’arco della decade successiva. Un carico questo che si va ad aggiungere ai tradizionali fattori di rischio”.

Il calcio coronarico insomma sarebbe un biomarcatore di imaging molto specifico nell’individuare le persone a ‘rischio cuore’ anche precoce nel corso della vita e che possono dunque trarre beneficio da un intervento precoce, ad esempio mirato al trattamento dell’ipertensione e dell’ipercolesterolemia, alla riduzione del peso corporeo e allo smettere di fumare”. E non si parla di un rischio di infarto imminente, tipo l’indomani o anche il mese dopo, ma di un consistente aumento di rischio nell’arco dei successivi 10 anni di vita.

I dati elaborati in questo studio provengono dal CARDIA (Coronary Artery Risk Development in Young Adults) uno studio longitudinale, di comunità del National Heart, Lung and Blood Institute (NHLBI), che ha reclutato oltre 5 mila persone di diverse etnie ed età compresa tra i 18 e i 30 anni in 4 città degli Stati Uniti (Oakland, Minneapolis, Chicago and Birmingham). Iniziato nel 1985, ha avuto una durata di 30 anni.

Su 3.300 soggetti è stata effettuata una TAC coronarica per il calcolo del CAC score e il follow up medio di questi soggetti è stato di 12,5 anni. In uno su tre, la coroTAC aveva rilevato presenza di calcificazioni coronariche.

Lo studio aveva lo scopo di rispondere a due domande: se la semplice presenza di calcificazioni arteriose, rilevate ad una TAC torace potesse dare informazioni per la pratica clinica e se un CAC-score maggiore di 100 fosse associato a mortalità prematura. La risposta ad entrambi le domande è risultata affermativa.

La semplice presenza di calcio, anche per gli score più bassi – rivela Carr – è risultata associata ad un aumento da 2,6 a 10 volte di eventi clinici nell’arco dei 12,5 anni successivi. Per chi presentava gli score più elevati (pari a 100 o superiori), l’incidenza di mortalità è risultata pari al 22%, in pratica 1 su 5. Ed è molto difficile individuare un biomarcatore, genetico o di imaging, in grado di predire un livelli di mortalità del 22% a 12,5 anni”.

La semplice presenza di calcificazioni insomma, a prescindere dal loro livello, rappresenta un segnale di pericolo, di qualcosa che non va a livello delle coronarie e che merita dunque attenzione immediata per implementare al massimo tutte le misure di prevenzione. Secondo Carr queste osservazioni possono avere delle ricadute cliniche immediate in quanto le calcificazioni coronariche sono rilevabili anche dalle TAC toraciche effettuate per qualunque indicazione, tipo polmoniti o altro.

“Facciamo un esempio – prosegue Carr – Una donna di 45 anni viene sottoposta a TAC torace che evidenzia la presenza di una placca calcifica a livello delle coronarie. Con le nuove informazioni scaturite da questo studio, i medici non avranno bisogno di andare a calcolare il CAC score o di fare altri esami. Basta sapere che è presente del calcio nelle coronarie per considerarla a rischio e mettere dunque in atto le migliori strategie preventive. La nostra ricerca dimostra infatti che qualunque individuo al di sotto dei 50 anni, con qualunque livello di CAC, va considerato a rischio decisamente aumentato di malattie cardiovascolari e questo dovrebbe rappresentare una call to action per indurre medici e pazienti ad aumentare il livello delle misure preventive cardiovascolari.

No ancora alla TAC per tutti. Per quanto preziose queste informazioni, al momento – frenano però gli autori – non ci sono elementi sufficienti per suggerire una strategia di screening del tipo ‘Tac per tutti’ negli individui tra i 32 e i 46 anni.

Invece, un approccio più mirato, basato sulla rilevazione dei fattori di rischio, anche precocemente nel corso della vita adulta, per individuare i soggetti ad alto rischio di sviluppare calcificazioni coronariche sarebbe di certo di maggior aiuto e andrebbe considerato. Questa ‘scrematura’ potrebbe dunque dimezzare il numero di soggetti da avviare ad una TAC per rilevare il CAC.

Un’altra importante lezione scaturita da questo studio è che il fatto che la presenza di CAC nei soggetti di 32-46 anni sia associata ad aumentato rischio di mortalità prematura per coronaropatia, sottolinea la necessità di mettere in atto un rigoroso controllo dei fattori di rischio tradizionali molto precocemente nel corso della vita.

Maria Rita Montebelli

Da QS

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