Tumori. VII Rapporto Favo. Aumentano gli italiani che ‘vivono’ con il cancro

20 Mag 2015

Cinque anni fa le persone con esperienza di cancro erano 2 milioni e mezzo, oggi sono più di 3 e un malato su quattro è completamente guarito. Ma le Associazioni dei pazienti chiedono a gran voce l’inserimento nei Lea della riabilitazione oncologica. E poi evidenziano i problemi del Paese: “Molte strutture ancora lontane da standard di appropriatezza e ancora troppe differenze di trattamento tra le Regioni”. IL RAPPORTO

Aumentano del 17%  le persone in Italia che vivono con il cancro e un malato su quattro guarisce completamente. È quanto evidenzia il VII Rapporto Favo (Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia) sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, presentato oggi al Senato nel corso della X Giornata nazionale del malato oncologico. Ma per le associazioni di strada da fare ce n’è ancora parecchia. Il rapporto evidenzia come viene “trascurata sia la fase di riabilitazione post-trattamento acuto sia quella che segue alla remissione totale”. Ma non solo, si rileva anche come “l’Italia è purtroppo ancora lontana dall’applicazione dei parametri sull’appropriatezza di un intervento chirurgico dal punto di vista oncologico” e come vi siano ancora “problemi nell’uguaglianza di trattamento”. Ma, soprattutto, le Associazioni dei pazienti, coordinate dalla Favo chiedono a gran voce che “la riabilitazione oncologica sia riconosciuta nella sua specificità e rientrare nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) garantiti a tutti i cittadini. Oggi non è così. E la mancanza di supporto socio-economico carica di oneri le famiglie, costrette a provvedere a proprie spese alle forme di assistenza non previste dal Ssn”.

Aumentano le persone che vivono con la malattia
Nel 2010 erano 2.587.347  gli italiani vivi dopo una diagnosi di tumore, il 4,4% della popolazione. I pazienti guariti, con un’attesa di vita paragonabile a quella delle persone non colpite da tumore, erano 704.648, pari al 27% di tutti i pazienti (20% uomini e 33% donne) e all’1,2% degli italiani. Nel 2015 sono circa 3 milioni (3.036.741) le persone vive dopo una diagnosi oncologica (4,9% degli italiani) con un incremento, rispetto al 2010, del 17%.

“Complessivamente, un malato di cancro su quattro può considerarsi guarito a tutti gli effetti – spiega Francesco De Lorenzo, presidente FAVO -. Questi dati rappresentano un’inversione di tendenza rispetto al diffuso stigma cancro uguale morte. Ma non sappiamo se queste persone effettivamente conducano una vita normale. Sorge quindi una serie di interrogativi sulla condizione in cui versano coloro che hanno sconfitto il cancro dal punto di vista sanitario, sociale ed economico. Oggi è possibile avviare una battaglia politica non solo nazionale, ma anche europea, per abbattere le barriere che impediscono alle persone guarite di avvalersi dei loro innegabili diritti socio sanitari ed economici, finora negati, a cominciare dall’accesso a mutui, assicurazioni sanitarie e servizi finanziari”.

Nel 2014 i tumori hanno rappresentato la principale causa di riconoscimento sia dell’assegno ordinario di invalidità che della pensione di inabilità, con un trend in costante crescita negli ultimi anni. “Il Servizio Sanitario Nazionale – sottolinea Carmine Pinto, presidente nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) – trascura sia la fase di riabilitazione post-trattamento acuto sia quella che segue alla remissione totale, argomentando, in maniera inaccettabile, che la riabilitazione oncologica è ricompresa nelle tipologie desunte dall’‘International Classification of Functioning, Disability and Health’ (ICF) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità”.

La riabilitazione del malato oncologico richiede specificità
In base a quanto stabilito dalla Conferenza Stato-Regioni, la riabilitazione oncologica viene inclusa all’interno di altre tipologie riabilitative, riferite alle patologie articolari, cardio-circolatorie, del linguaggio, dell’apparato digerente, urinarie, mentali e dell’autonomia comportamentale. “Ma il tumore – continua Elisabetta Iannelli, segretario FAVO – è una malattia diversa da tutte quelle elencate e determina bisogni riabilitativi specifici, non assimilabili agli altri. Si tratta di una omissione particolarmente penalizzante per i pazienti, perché gli esiti dei trattamenti anti-cancro possono causare difficoltà non solo fisiche ma anche cognitive, psicologiche, nutrizionali, sessuali, sociali e lavorative. La sottovalutazione di questi aspetti ha portato anche a escludere, quanto meno in forma di consultazione, la voce delle Associazioni dei pazienti dal ‘Patto della Salute’ approvato dalla Conferenza Stato Regioni il 10 luglio 2014”.

“La sfida del volontariato oncologico – prosegue  De Lorenzo – è portare all’attenzione del Servizio Sanitario Nazionale anche la fascia di popolazione costituita dalle persone guarite dal cancro, oggi del tutto trascurata, attraverso l’istituzione di un programma di sorveglianza clinica per la prevenzione terziaria (possibili secondi tumori e comparsa di effetti collaterali tardivi a seguito di chemioterapie, radioterapie e uso di farmaci con forti effetti secondari). Le conseguenze della malattia possono lasciare tracce psicologiche profonde che condizionano le relazioni interpersonali e lo stato di benessere generale, con conseguente difficile reintegro sociale e lavorativo. Su questi aspetti è doveroso intervenire in modo efficace attraverso percorsi di riabilitazione e di sostegno psicologico. L’insieme di queste misure deve essere compreso in uno specifico programma interdisciplinare di ‘cura della persona guarita’”.

Spetta al volontariato oncologico promuovere con forza e dedizione una campagna informativa in grado di raggiungere i malati al termine del trattamento della fase acuta e le persone guarite, per un’azione di prevenzione terziaria e di specifica riabilitazione. Il libretto “La vita dopo il cancro”, realizzato da FAVO e AIOM e che sarà prossimamente reso disponibile nelle Oncologie Mediche nelle Associazioni di volontariato, rappresenta il primo strumento informativo in grado di sottolineare la necessità di una gestione della persona anche dopo la fine delle cure e di fornire, in modo semplice e sintetico, gli strumenti di conoscenza indispensabili per poter contribuire al miglioramento del proprio stato di salute.

Ancora troppe strutture al di sotto degli standard di appropriatezza
“L’effettiva realizzazione delle reti oncologiche regionali – continua De Lorenzo- è l’occasione per la presa in carico a 360 gradi dei pazienti, compresi quelli guariti. L’intesa Stato-Regioni del 30 ottobre 2014 ha approvato la ‘Guida per la costituzione di reti oncologiche regionali’. Questo documento si caratterizza sia per i suoi contenuti che per il suo significato di governance. Finora solo in Lombardia, Piemonte e Toscana sono stati realizzati compiutamente questi network, ma è importante capire se e in che modo queste Regioni hanno messo in atto  la ‘Guida’”.

Le reti oncologiche permettono inoltre di indirizzare i casi più complessi nei centri di riferimento. Ad esempio nel recente Decreto Ministeriale sugli standard ospedalieri è indicata la necessità di ridurre le strutture chirurgiche del 10% a livello nazionale e del 25% nelle Regioni in piano di rientro, tenendo conto dei volumi di attività. Il Decreto Ministeriale riporta ancora una volta l’attenzione sulle reti per patologia, a cominciare dalla Rete oncologica.

“Ed è da qui che si deve partire – sottolinea De Lorenzo -. Ma per fare Rete bisogna innanzitutto che le Aziende Sanitarie Pubbliche, prima ancora dei singoli operatori, escano da logiche individualistiche e opportunistiche legate ai vincoli di bilancio. L’Italia è purtroppo ancora lontana dall’applicazione dei parametri sull’appropriatezza di un intervento chirurgico dal punto di vista oncologico, cioè della sua esecuzione secondo criteri che assicurino il miglior standard qualitativo”.

Ad esempio nel tumore del colon-retto, la mortalità post operatoria a 30 giorni passa dal 15% a meno del 5% quando il volume di attività raggiunge i 50/70 interventi l’anno e ciò avviene solo in 177 (22%) strutture su 805. In quello dello stomaco, la mortalità post operatoria a 30 giorni si dimezza passando da più del 20% a meno del 10% quando il volume di attività raggiunge i 20/30 interventi l’anno e ciò avviene solo in 108 strutture (16%) su 662. E in quello del polmone la mortalità post operatoria a 30 giorni diminuisce decisamente dal 20 a circa il 5% quando il volume di attività raggiunge i 50/70 interventi annui l’anno e ciò avviene solo in 36 (16%) strutture su 231.

“In quest’ottica anche il ruolo dei piccoli ospedali periferici potrebbe essere valorizzato ai fini di una selezione della casistica – sottolinea Pinto -. I piccoli ospedali, infatti, sono spesso la punta di ingresso dei malati nella rete. Circa il 20% dei malati con cancro del colon o della stomaco, ancora oggi, accede al Pronto Soccorso con sintomi acuti (sub occlusione, dolori etc). Sul modello delle reti per l’emergenza, anche i malati oncologici chirurgici, una volta stabilizzati e identificata l’indicazione chirurgica, dovrebbero essere inviati al centro di riferimento più vicino, in grado di affrontare la situazione in maniera multidisciplinare integrata. Il centro di riferimento per patologia ideale dovrebbe diventare un ‘contenitore allargato’ di tutte le professionalità che vogliano crescere in un’ottica di qualità del lavoro, all’interno di percorsi diagnostico, terapeutici, assistenziali condivisi e monitorati su tutto il bacino di utenza”.

Servono 1.070 giorni per avere a disposizione un nuovo farmaco anti cancro
Servono circa tre anni, 1.070 giorni, perché un farmaco anti-cancro sia disponibile per i pazienti italiani. In particolare sono richiesti 400 giorni per l’approvazione da parte dell’agenzia regolatoria europea (EMA, comprensivi di “clock-stop”) e circa 570 per quella nazionale dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco). L’ostacolo ulteriore è costituito dalla terza fase, regionale, che prevede l’inserimento del farmaco nel Prontuario Terapeutico Ospedaliero Regionale (PTOR). Con molte differenze sul territorio: in media servono 100 giorni, ma si passa da un massimo di 170 in Calabria a un minimo di 40 in Umbria. I dati emergono dall’indagine promossa da AIOM (Associazione Italiana di Oncologica Medica), FAVO (Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia), e Fondazione Censis, contenuta anch’essa nel Rapporto.

“Nelle Regioni che non hanno il Prontuario Terapeutico Ospedaliero i farmaci innovativi sono disponibili in maniera più tempestiva – spiega De Lorenzo -. È chiaro che avere le terapie giuste al momento giusto è l’unica soluzione per rispondere in modo adeguato alla domanda di cure efficaci. Il lavoro svolto dalle Commissioni regionali, locali e aziendali, che ovviamente non aggiungono valutazioni scientifiche aggiuntive rispetto a EMA e AIFA, porta a un razionamento dei farmaci effettivamente disponibili per i cittadini. E si determinano così inaccettabili disparità tra Regione e Regione, negando, dove ciò avviene, il diritto di tutti i malati ad avere accesso in tempo utile ai nuovi farmaci autorizzati”.

L’indagine è stata condotta a livello nazionale e in un campione di 10 Regioni (Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Sicilia, Toscana, Umbria e Veneto), prendendo in considerazione un set di 16 farmaci oncologici (nuove autorizzazioni AIC o estensioni di indicazioni di farmaci già autorizzati) che hanno completato l’iter autorizzativo negli ultimi due anni e che sono ora disponibili in commercio.

“In molti casi – continua De Lorenzo – i ritardi sono causati dalla cadenza temporale delle riunioni delle Commissioni Tecnico Scientifiche regionali, che spesso avvengono con scarsa frequenza, anche dopo due anni. Inoltre, spesso, durante l’iter autorizzativo, il passaggio dall’AIFA ai singoli PTOR porta addirittura a un taglio delle indicazioni terapeutiche, con l’effetto di negare il diritto alla cura ad alcuni pazienti.

Garantire l’uguaglianza di trattamento a tutti i cittadini. E attenzione a come si riformerà il titolo V
Altro aspetto fondamentale per garantire l’uguaglianza di trattamento dei cittadini rispetto ai Livelli Essenziali di Assistenza è costituito dalla modifica del Titolo V della Costituzione, in particolare dalla riformulazione dell’articolo 117. “Nei precedenti rapporti – spiega  il prof. De Lorenzo – sono state documentate le numerose e crescenti disparità nelle diverse Regioni per l’accesso dei malati di cancro ai farmaci, alla radioterapia, all’assistenza domiciliare, alla terapia del dolore e alle cure palliative. Disparità inaccettabili sia sul piano sanitario, assistenziale e sociale che per quanto riguarda le chance di cura e guarigione, senza considerare le gravi ripercussioni economiche (migrazioni interregionali, ricorso a sistemi privati, ecc) sui malati e le loro famiglie oltre che sull’intero sistema di assistenza”.

Dal 2001, a seguito della modifica del titolo V della Costituzione, queste disuguaglianze territoriali si sono aggravate. È stato infatti assegnato alle Regioni un ampio potere decisionale in materia di assistenza sanitaria e ospedaliera ed è stato fortemente indebolito il potere dell’amministrazione centrale, con l’effetto di accentuare le difformità nella realizzazione dei Livelli Essenziali di Assistenza, in rapporto ai modelli organizzativi che le singole Regioni hanno ritenuto di adottare. Nelle intenzioni di riforma costituzionale attualmente in discussione nel Parlamento, è chiara la volontà di riaffermare il primato dell’uniformità assistenziale, stabilendo che spetta allo Stato determinare i livelli essenziali delle prestazioni che debbono essere garantiti in tutto il territorio nazionale.

“Ma, nel testo in discussione – conclude Elisabetta Iannelli -, si nasconde un pericoloso e non trascurabile equivoco nella riformulazione della lettera ‘m’ del secondo comma dell’art. 117, perché viene fatto riferimento solo alle prestazioni riguardanti i diritti ‘civili e sociali’, tralasciando quelli sanitari. È evidente che, per affermare oltre ogni possibile ambiguità interpretativa l’indiscutibile principio che tutti i cittadini hanno diritto all’eguaglianza di trattamento anche per quanto concerne la tutela della salute, la norma vada modificata includendo i diritti sanitari. Senza questa doverosa inclusione ci si troverebbe davanti all’assurdità di garantire con norma costituzionale i diritti civili e sociali, rendendo in tal modo possibile l’esclusione di quello alla salute”.

Il Patto per la Salute ha dimenticato le associazioni dei malati
Ma nel rapporto non mancano le critiche anche al Patto per la Salute siglato nel luglio scorso tra Governo e Regioni. A farle è lo stesso direttore dell’Osservatorio Favo Sergio Paderni che, dopo aver riconosciuto i molti aspetti innovativi e positivi dell’accordo, sottolinea però come “in nessuno dei 132 organismi collegiali, previsti o creati dal Patto per la salute, è contemplata la partecipazione delle Associazioni rappresentative dei malati e neppure di quelle dei professionisti sanitari. In altre parole, l’uso del termine “Patto” nel titolo del documento – dice Paderni –  è improprio e fuorviante, trattandosi di un accordo tra istituzioni, cui si addice la qualifi cazione propria di “Atto d’intesa”.

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