L’ultimo saluto del mio amico Loris «Ho paura di continuare a vivere così»

16 Ott 2017

Nuovo caso di morte assistita. Il sociologo Bettin: «Se n’è andato dicendo ti abbraccio»

Ci sono momenti di silenzio che contengono milioni di parole perché la verità è che le parole non potranno mai bastare per l’addio a un amico che sta per morire.

Il sociologo e scrittore Gianfranco Bettin si è lasciato guidare dalle emozioni. «Gli ho detto “buon viaggio amico mio”. E lui mi ha risposto “ti abbraccio”. Ci siamo salutati così».

Pochi minuti dopo Loris Bertocco ha mandato giù la pozione letale. Era troppo malato, troppo stanco di vivere la sua non-vita, imprigionato nei mille limiti di un corpo quasi immobile. Aveva 58 anni. È morto mercoledì mattina in Svizzera, a Zurigo, con il suicidio assistito della Dignitas.

Il 30 marzo del 1977 un incidente ridusse i suoi movimenti ai minimi termini, una caduta dalle stampelle, anni dopo, interruppe il recupero che stava faticosamente provando a costo di fatiche inenarrabili. E poi ancora due vertebre lesionate nel tentativo di sistemarle, la malattia agli occhi che lo ha reso cieco…

«Una sfortuna nera», per dirla con Bettin che lo conosceva da più di quarant’anni, «e però lui non ha mai avuto uno spirito negativo. L’energia che aveva prima dell’incidente l’ha messa in campo anche dopo, per continuare a vivere. Finché gli è sembrato che valesse la pena viverla, quella vita».

A metà degli anni Settanta — quando il giovane Loris portava eskimo, capelli lunghi e barbetta — da buon attivista arrivava in piazza sempre carico di striscioni, bandiere, fogli per il ciclostile, idee, slogan. «Eravamo tutti e due nei movimenti studenteschi e giovanili di quegli anni, nella Riviera del Brenta. Io sono di Porto Marghera, lui era di Fiesso D’Artico» ricorda l’amico Gianfranco. «Era un leader nato perché sapeva coinvolgere le persone, era convincente e generoso, teneva i contatti fra le scuole, organizzava iniziative di ogni genere. Suonava la chitarra, il giorno dell’incidente stava andando a tenere un corso di musica ai ragazzi della sua zona».

Quell’incidente fu lo spartiacque della sua esistenza. Dal tutto al quasi niente, all’improvviso. «Eppure ha resistito e ogni volta ha provato a rialzarsi» racconta Bettin.

È stato fra i fondatori dei Verdi assieme ad Alexander Langer e da allora non ha mai più abbandonato la causa ambientalista. I suoi problemi di salute lo hanno ovviamente coinvolto nell’altra grande lotta della sua vita: quella per i diritti dei disabili. A Mira (Venezia) lo ricordano tutti come quello che, da consigliere comunale, arrivava in aula accompagnato dai vigili urbani che lo aiutavano a salire le scale e a pigiare i tasti per votare. Erano tempi già difficilissimi ma l’arrivo della cecità (nei primi anni Duemila) è stato il colpo più duro.

«Per scrivere le sue memorie e per la battaglia sul testamento biologico e la legge sul fine vita dettava le frasi al computer perché la voce era rimasta quella di sempre» dice Bettin.

Che racconta: «Poche sere prima di partire per la Svizzera ha organizzato alcune cene con amici, ha voluto che si andasse al ristorante e una delle serate è finita in riva alla laguna. Quasi nessuno sapeva che quello era un saluto. Disse solo che partiva, che il viaggio sarebbe stato faticoso ma che doveva farlo».

Con lui, con l’amico Gianfranco, non c’è stato bisogno di dire niente, sapevano tutti e due che da quel viaggio non sarebbe più tornato, anche perché era da molto tempo che ci pensava e con lui non ne aveva fatto mistero. «Si era inventato di partire per andare a vedere di persona come era organizzata “quella cosa”, così la chiamava. Ma sapevo benissimo che era arrivato il momento. E la sera prima, in una lunga telefonata, ne abbiamo parlato. Per farle capire che tipo era: mi ha chiesto se era stata approvata la legge elettorale…».

La domanda è arrivata spontanea: «Hai paura?» gli ha chiesto Bettin. Risposta: «Ho paura soltanto di continuare a vivere così. Ho salutato tutti e sono tranquillo, so che non proverò dolore».

La mattina dopo, poco prima di «quella cosa», il saluto finale. Quel «buon viaggio amico mio» e quel silenzio che conteneva milioni di parole.

Da Corriere.it

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