Ricerca. Cnr: per le donne è difficile fare carriera

20 Apr 2015

In Italia, nel settore della ricerca, all’inizio del percorso lavorativo si osserva una sostanziale parità numerica tra i ricercatori e le ricercatrici (52% vs 48%). Avanzando nella carriera, invece, le donne occupano soltanto il 24% delle posizioni apicali. Il ritratto fotografato nel volume Portrait of Lady curato da Sveva Avveduto e Lucio Pisacane dell’Irpps-Cnr

Nella ricerca, la presenza femminile in posizioni di rilievo e nelle sedi decisionali resta ancora bassa. Avanzando nella carriera, infatti, le ricercatrici occupano soltanto il 24% dei posti. Questi dati sono tratti dal volume Portrait of Lady, edito da Gangemi e curato da Sveva Avveduto, dirigente di ricerca dell’Istituto di ricerca sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche (Irpps-Cnr), insieme al collega Lucio Pisacane.

Effettuando una media che tiene conto di tutti i livelli lavorativi, nel settore occupazionale della ricerca le donne occupano il 38% delle posizioni mentre gli uomini ben il 62%. La distribuzione è leggermente spostata a favore del sesso femminile nel caso della ricerca svolta all’interno degli Enti pubblici, dove la percentuale delle ricercatrici registra un 44%.
Tuttavia, ci sono alcuni risultati positivi: dal 2000 ad oggi, infatti, la presenza femminile è aumentata di 10 punti percentuali, anche se tale aumento non riguarda le posizioni apicali. Infatti, se all’inizio della professione i dati nazionali svelano una sostanziale parità tra i due sessi (il 48% dei ricercatori sono donne e il 52% uomini), avanzando nella carriera la bilancia pende nettamente a vantaggio dei ricercatori di sesso maschile, che salgono al 76% del totale mentre le ricercatrici restano solo al 24%. “Lo stesso si verifica per i tecnologi: appartengono al genere femminile il 44% del grado iniziale, il 34,6% dei primi tecnologi e il 22% dei dirigenti tecnologi. Ancora meno incoraggianti i dati relativi alla direzione: sono meno del 17% le donne tra i direttori di Istituti di ricerca e di Dipartimento, malgrado dal 2010 al 2012 ci sia stato un incremento del 3,6%, e non si conta neanche una presenza femminile su cinque direttori generali”, illustra Sveva Avveduto.

Anche a livello europeo le donne non sembrano favorite quando si parla di ricerca. “Secondo il rapporto She figures 2013, realizzato dalla Direzione generale per la ricerca e l’innovazione della Commissione europea, le donne ricercatrici sono il 32% del totale europeo (Eu27), anche se il tasso di crescita è maggiore di quello degli uomini”, sottolineala ricercatrice dell’Irpps-Cnr. “Per 1.000 occupati si registrano nell’Ue 7,6 donne contro 11,9 uomini. È donna il 40% di quanti lavorano nell’università (38% in Italia), il 40% negli Enti pubblici di ricerca (44% in Italia), il 19% nelle imprese nel settore (21% in Italia). La segregazione verticale è dunque ancora accentuata e se lo squilibrio fosse lasciato alla sua naturale correzione impiegherebbe decenni a colmarsi”.
Un capitolo del libro è dedicato al settore delle Public Research Institutions. “In Italia, per la peculiare configurazione economico-imprenditoriale, l’occupazione nei settori scienza e ricerca si realizza prevalentemente nelle strutture pubbliche”, spiega la ricercatrice dell’Irpps-Cnr. “I dati Istat pubblicati nel dicembre 2013 evidenziano anzi come il personale in queste istituzioni aumenti (+4,3%) in maniera decisamente più rilevante rispetto al comparto privato (+0,2%%): i ricercatori pubblici sono 62.607, mentre nelle imprese 39.808. A determinare tale preferenza nell’orientamento femminile concorre anche la presenza di una serie di garanzie: dalle tutele della maternità all’eguaglianza di opportunità di accesso, fino all’avanzamento di carriera formalmente paritario”.
In Italia, spiega Avveduto, in base ai dati del ministero dell’Economia e delle finanze, dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, relativi al 2000-2012, “in 10 anni, vari provvedimenti legislativi da un lato non hanno consentito l’accesso a nuove forze, dall’altro hanno procrastinato la fuoriuscita pensionistica dagli Enti di ricerca, producendo una sostanziale stabilità”, precisa la ricercatrice, che evidenzia “la scarsa capacità del sistema di assorbire il personale precario”.

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